La Corte di Giustizia dell’Unione europea, con la sentenza del 18 maggio 2017, emessa nella causa C-99/16, interviene a fare chiarezza in tema di “processo informatico”, sancendo, in particolare, che il diniego al rilascio del dispositivo necessario per la comunicazione elettronica protetta con le cancellerie, per il solo fatto che l’avvocato richiedente sia iscritto a un Ordine forense di un diverso stato UE, costituisce, in via di principio, una restrizione della libera prestazione di servizi vietata dal diritto comunitario.
IL FATTO:
La vicenda sulla quale la Corte di Giustizia si è pronunciata nasceva dal rifiuto, espresso dall’Ordine degli avvocati di Lione, di fornire, ad un avvocato del Lussemburgo, il dispositivo elettronico necessario per il deposito telematico degli atti giudiziari (e, più in generale, per accedere a tutti i vantaggi derivanti dalla “de materializzazione delle procedure”). Alla base del diniego, l’Ordine francese poneva il fatto che l’istante non fosse iscritto presso il foro di Lione, e che tale circostanza, per il sistema di “giustizia telematica” francese, non permettesse un effettivo controllo sull’avvocato.
L’avvocato lussemburghese, pertanto, citava in giudizio l’Ordine forense di Lione al fine di ottenere, da quest’ultimo, il rilascio del predetto dispositivo.
Il Tribunale adito si è rivolto ai giudici europei chiedendo di valutare, alla luce della normativa europea, la legittimità del rifiuto opposto dall’Ordine forense francese.
La Corte di Giustizia, in particolare, ha esaminato la questione propostagli in relazione all’art. 56 del TFUE (Trattato sul funzionamento dell’Unione europea), in forza del quale sono vietate tutte le restrizioni alla libera prestazione dei servizi. Tali limitazioni, infatti, devono essere soppresse per consentire al prestatore (in questo caso, l’avvocato) di esercitare la sua attività, nel paese ove la prestazione è fornita, alle stesse condizioni imposte, dal paese stesso, ai propri cittadini.
Secondo questa prospettiva, gli eurogiudici hanno, quindi, affermato che il mancato rilascio del dispositivo di accesso RPVA (Rete privata virtuale degli avvocati) agli avvocati non iscritti ad un Ordine forense francese è, senza dubbio, idoneo ad ostacolare o a rendere meno attraente l’esercizio da parte di questi ultimi della loro attività nel territorio dello stato e, pertanto, “costituisce una restrizione alla libera prestazione di servizi ai sensi dell’art. 56 TFUE“.
Non potendo accedere al servizio di dematerializzazione delle procedure, infatti, gli avvocati stranieri devono fare ricorso alla comunicazione mediante deposito in cancelleria degli atti giudiziari o mediante posta, oppure all’assistenza di un avvocato iscritto presso un foro francese (che disponga del dispositivo RPVA). Tali modalità alternative alla comunicazione per via elettronica, in tutta evidenza, risultano più impegnative e, comunque, più onerose.
Quanto sancito dalla CGUE, tuttavia, non ha carattere assoluto.
Sono gli stessi giudici europei, infatti, a riconoscere la legittimità della limitazione in questione, nelle ipotesi in cui questa sia necessaria per garantire il buon funzionamento della giustizia e la tutela del cliente, destinatario finale del servizio giuridico fornito. Tali obiettivi, quindi, devono poter essere raggiunti esclusivamente con la predetta restrizione.
Questa valutazione, in ogni caso, spetta al giudice nazionale (in questo caso, il tribunale di Lione), il quale deve vagliare, nel caso concreto, la necessità della misura limitativa, la sua idoneità, e la proporzionalità al raggiungimento dei predetti scopi (cioè che la misura non vada oltre quanto strettamente necessario per la tutela dell’interesse pubblico).
PERCHÉ È IMPORTANTE:
La sentenza in esame appare di notevole interesse, in quanto, con la stessa, la Corte di Giustizia prende posizione sulla libertà di prestazione di servizi, principio fondamentale del diritto europeo, in relazione all’attività forense.
In particolare, stante il divieto di limitazioni alla libera prestazione dei servizi, i giudici europei sanciscono che è compito del giudice nazionale valutare se il diniego al rilascio del dispositivo per l’accesso al cd. processo informatico ad un avvocato iscritto presso il foro di un altro stato membro sia misura idonea, proporzionale e necessaria per la tutela dell’interesse pubblico al buon funzionamento della giustizia.
Qualora non sussista una delle tre condizioni, detto rifiuto costituirebbe, senza dubbio, una limitazione alla libera prestazione dei servizi vietata dal diritto UE.
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