Videosorveglianza sul posto di lavoro: è reato anche se le telecamere non funzionano

CCTV security and surveillance cameraCon la sentenza 45198 del 26 ottobre 2016, la Suprema Corte di Cassazione è nuovamente intervenuta in materia di videosorveglianza nei luoghi di lavoro, confermando il proprio consolidato orientamento secondo il quale per l’integrazione del reato di cui all’art. 4 della Legge n. 300 del 1970 (lo “Statuto dei Lavoratori”) non è richiesto il concreto utilizzo delle attrezzature di videosorveglianza installate.

IL FATTO:

Il caso è stato portato all’attenzione della Suprema Corte dalle due amministratrici di una società avente in gestione un night club, le quali erano state condannate in primo grado dal Tribunale di Ascoli Piceno alla pena di 1.000 euro di ammenda per aver installato nei locali di propria pertinenza impianti ed apparecchiature audiovisive dalle quali era possibile controllare a distanza l’attività dei lavoratori dipendenti, il tutto in assenza di accordo con le rappresentanze sindacali e con la commissione interna e senza osservare le modalità indicate dalla locale Direzione Territoriale del lavoro. Entrambe le amministratrici avevano quindi proposto ricorso per Cassazione avverso alla sentenza di condanna, segnalando come, in fase istruttoria, non fosse stata in alcun modo accertata la funzionalità dell’impianto.

La Corte, dopo aver ricordato che la disposizione di cui all’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori trova ad oggi sanzione, in forza del combinato disposto degli articoli 114 e 171 del D.lgs. 196/2003 (c.d. “Codice della Privacy”), nell’art. 38 c.1 dello Statuto dei lavoratori, il quale prevede la pena alternativa dell’ammenda da euro 154 a euro 1.549 o dell’arresto da quindici giorni ad un anno, si sofferma sulla natura del suddetto reato, specificando che “si tratta di un reato di pericolo, essendo diretto a salvaguardare le possibili lesioni della riservatezza dei lavoratori, con la conseguenza che per la sua integrazione è sufficiente la mera predisposizione di apparecchiature idonee a controllare a distanza l’attività dei lavoratori, in quanto per la punibilità non è richiesta la messa in funzione o il concreto utilizzo delle attrezzature, essendo sufficiente l’idoneità al controllo a distanza dei lavoratori e la sola installazione dell’impianto”, come già confermato da numerosi precedenti della stessa corte (ex multis cfr. Cass., Sez. 3, n. 4331 del 12/11/2013; Sez. 3, n. 8042 del 15/12/2006; Sez. L, n. 2722 del 23/02/2012; Sez. L, n. 2117 del 28/01/2011). Per questo motivo la Cassazione giudica i ricorsi inammissibili, condannando le ricorrenti al pagamento delle spese processuali nonché al versamento di un’ulteriore somma equitativamente determinata a favore della Cassa delle Ammende ai sensi dell’art. 616 c.p.p.

PERCHÉ È IMPORTANTE:

La Suprema Corte, se da un lato coglie dunque l’occasione per confermare il proprio precedente orientamento, stabilendo che ai fini della violazione del divieto di cui all’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori è sufficiente la predisposizione dei dispositivi di videosorveglianza e la loro idoneità al controllo a distanza dei lavoratori, dall’altro non sembra ritenere rilevante, per lo meno con riferimento al caso di specie, la modifica che ha interessato il suddetto articolo 4 ad opera del D.lgs. 151 del 2015, considerando punibili nell’ambito della norma nella sua nuova formulazione fatti commessi durante la vigenza della disposizione precedente.

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