La clausola risolutiva espressa all’interno di contratti commerciali è vessatoria?

Come affermato dalla recente sentenza del Tribunale di Milano, sez. VI, del 23 gennaio 2020, la clausola risolutiva espressa inserita all’interno di un contratto commerciale, che attribuisce a una parte contrattuale il diritto potestativo di risolvere il contratto in ipotesi di circostanziati inadempimenti della relativa controparte senza l’onere di allegarne l’importanza, non necessita di espressa approvazione scritta ai sensi dell’art. 1341, comma 2, del c.c., in quanto non rappresenta un aggravamento della posizione contrattuale della parte che la subirebbe.

IL FATTO:

La clausola risolutiva espressa disciplinata dall’art. 1456 del c.c. rappresenta una forma di autotutela privata che può essere inserita all’interno di contratti a prestazioni corrispettive e consente al creditore deluso di risolvere il contratto senza costituire in mora l’altra parte in caso di mancato o inesatto adempimento, da parte di quest’ultimo, delle obbligazioni rispetto alle quali la clausola è operante, dandone semplice comunicazione.

In questo modo, il creditore insoddisfatto, notificando la comunicazione con cui dichiara di avvalersi della clausola in commento, non ha necessità di intimare l’adempimento entro un congruo termine (art. 1454, co. 1, c.c.).

Il creditore non sarà tuttavia liberato dall’onere di provare l’inadempimento di controparte, ma sarà liberato dall’onere di doverne provare l’importanza nell’ambito dell’economia del contratto (art. 1455 c.c.). Detta clausola, attribuisce quindi al creditore la possibilità di risolvere “di diritto” il contratto a prescindere dalla gravità dell’inadempimento, che si presume per la sola circostanza che le parti abbiano pattuito la facoltà per il creditore di far cessare il contratto laddove abbia accertato la violazione di specifici obblighi contrattualmente assunti dalla controparte.

Il ventaglio di ipotesi in cui tale clausola possa in concreto operare per la risoluzione del contratto, potrebbe, in astratto, rappresentare un potenziale pericolo per il contraente commercialmente più debole e, quindi, l’inserimento della clausola potrebbe risultare vessatorio.

Anche la giurisprudenza e la dottrina si sono interrogate circa la natura vessatoria della clausola risolutiva espressa e, di conseguenza, sulla necessità o meno di espressa approvazione per iscritto ai sensi dell’art. 1341, comma 2, del c.c., anche se non esplicitamente richiamata tra le ipotesi ivi previste.

Al riguardo si rilevano due tesi.

Un primo orientamento muove dal presupposto che, affinché una previsione contrattuale si possa considerare vessatoria, non è sufficiente che la stessa comporti un’alterazione al sinallagma contrattuale, ma occorre che la stessa sia riconducibile a una delle ipotesi espressamente previste dall’art. 1341, comma 2, del c.c. quali, a mero titolo esemplificativo, la limitazione alla facoltà di opporre eccezioni, limitazioni di responsabilità, la facoltà di recedere (cfr. ex multis Cass. Civ., 14912/2001). Ciò nondimeno, tale orientamento, opera un’interpretazione estensiva della “facoltà di recedere dal contratto” prevista dall’art. 1341, co. 2, c.c., tenuto conto che anche la clausola risolutiva espressa consentirebbe al contraente di liberarsi anzitempo dal contratto, peraltro, non per mero volere ma per una “giusta causa” (leggasi l’inadempimento della controparte).

Di converso, altro orientamento nega la natura vessatoria di detta clausola, muovendo da una lettura restrittiva dell’art. 1341, comma 2, del c.c., riconoscendo che tale norma ha applicazione eccezionale, limitata alle sole ipotesi ivi espressamente richiamate.

La sentenza del Tribunale di Milano qui in commento è in linea con precedenti pronunce del medesimo foro (cfr. anche Trib. Milano, 23 settembre 2013) e aderisce a un’applicazione eccezionale della disciplina della vessatorietà delle clausole. I giudici meneghini affermano che la clausola risolutiva espressa non è riconducibile ad alcuna delle ipotesi tassativamente indicate dall’art. 1341, comma 2 del c.c.; inoltre, aggiungono che non è ravvisabile un eventuale aggravamento della posizione contrattuale del contraente che la subirebbe, tenuto conto che la possibilità di agire per la risoluzione del contratto spetta comunque in caso di inadempimento e tale clausola si limita solo a rafforzare tale facoltà.

Da ultimo, la sentenza in commento aggiunge che si deve giungere alla medesima conclusione in caso di inserimento di clausole contrattuali che disciplinano caparre, penali e altre simili previsioni, finalizzate a predeterminare convenzionalmente le modalità di ristoro in caso di inadempimento.

Di conseguenza, tali clausole sono valide anche in assenza di specifica sottoscrizione.

PERCHE’ E’ IMPORTANTE:

La sentenza in commento esclude che la clausola risolutiva espressa o altre pattuizioni non espressamente contemplate dall’art. 1341, comma 2, del c.c. possano per analogia determinare, agli effetti legali, uno squilibrio tra i contraenti e, conseguentemente, possano giustificare l’applicazione delle norme a tutela del contraente debole.

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