Facebook: il profilo “chiuso” non evita la violazione della riservatezza

Hand holding earth and electronicsCon il provvedimento n. 75 del 23 febbraio 2017, il Garante per la protezione dei dati personali è intervenuto in materia di tutela della riservatezza di un soggetto minore di età in caso di diffusione di dati a questo riferibili mediante pubblicazione su un social network.

IL FATTO:

Il padre di una bambina minorenne si è rivolto al Garante per la privacy per tutelare il diritto alla riservatezza della propria figlia, asseritamente violato dalla madre di quest’ultima a causa della divulgazione sul profilo Facebook della donna di ben due sentenze emesse dal Tribunale di Tivoli relative alla cessazione degli effetti civili del matrimonio, nelle quali venivano esplicitamente trattati aspetti riguardanti l’intimità della vita familiare e dalle quali emergevano «dettagli delicati (anche inerenti alla sfera sessuale) relativi al vissuto familiare ed ai disagi personali» della bimba.

Il Garante, dopo aver rilevato che la divulgazione on line dei provvedimenti giudiziari risulta apertamente in contrasto sia con il divieto di pubblicazione “con qualsiasi mezzo” di notizie idonee a consentire l’identificazione di un minore coinvolto a qualsiasi titolo in procedimenti giudiziari di cui all’art. 50 del Codice per la protezione dei dati personali, che con il divieto di diffusione dei dati idonei a rendere comunque identificabili, anche in via indiretta, i minori coinvolti e le parti di procedimenti in materia di famiglia ex art. 52, c. 5 del suddetto Codice, si spinge oltre, e coglie l’occasione per lanciare quello che ha le sembianze di un monito nei confronti degli utenti del noto social network.

L’Autorità infatti sottolinea che «non può essere provata la natura chiusa del profilo e la sua accessibilità a un numero ristretto di “amici”», e questo in quanto da un lato il profilo risulta agevolmente modificabile da “chiuso” ad “aperto” in ogni momento da parte del titolare, e dall’altro poiché qualunque “amico” ammesso al profilo stesso ha la «possibilità […] di condividere sulla propria pagina il post rendendolo, conseguentemente, visibile ad altri utenti» . Attenzione dunque, perché ciò che si “posta” sul social network non può mai considerarsi riservato ai soli soggetti autorizzati (gli “amici” per l’appunto), ma anzi, la pubblicazione rende il contenuto accessibile a tutti gli utenti di Facebook, per lo meno a livello potenziale. Il solo fatto di essere in possesso di un account “chiuso”, dunque, non è affatto idoneo a fungere da esimente o attenuante nel caso in cui il titolare dello stesso violi il diritto di riservatezza di un soggetto terzo.

Il Garante rincara infine la dose, stabilendo che «l’estrema diffusività della divulgazione su internet aggrava notevolmente, rispetto a qualsiasi altro mezzo, la violazione dei diritti dell’interessato […] anche perché le eventuali “regole” di privacy possono non essere applicate correttamente dall’utente o aggirate da navigatori esperti».

Alla luce di quanto sopra, il Garante per la protezione dei dati personali ha ordinato alla madre della bimba di rimuovere dal proprio profilo le sentenze in questione.

PERCHÉ È IMPORTANTE:

Il provvedimento in esame è rilevante in quanto riconosce espressamente l’impossibilità di controllare la diffusione di un contenuto pubblicato mediante un social network, a prescindere da eventuali accorgimenti adottati, quale l’utilizzo di un profilo visualizzabile unicamente a soggetti autorizzati.

Ulteriore spunto di interesse è l’esplicita identificazione da parte del Garante della pubblicazione su social network quale elemento aggravante rispetto alla violazione dei dati personali, proprio a causa della smisurata capacità divulgativa a questi connessa.

Entrambi tali assunti rappresentano degli elementi che è necessario tenere in considerazione non solo nell’ambito della tutela del diritto alla riservatezza, ma più in generale ogniqualvolta vi sia un’interazione tra l’applicazione della legge ed il fenomeno dei social media: si pensi, per esempio, alla diffamazione mediante social network (si veda da ultima Cass., Sez. I Penale, sentenza n. 50/2017 la quale ha ribadito che la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca “Facebook” integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595 terzo comma c.p., in quanto trattasi di condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone).

Cogliamo infine l’occasione per ricordare che l’Autorità ha pubblicato on line un apposito vademecum relativo alla c.d. “social privacy” che raccoglie una serie di indicazioni e suggerimenti utili per un utilizzo consapevole dei social media.

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