Abuso di internet in orario di lavoro: licenziamento legittimo.

Con la sentenza 14862 del 15 giugno 2017, la Suprema Corte di Cassazione ha confermato una pronuncia della Corte d’Appello di Bologna che aveva ritenuto legittimo il licenziamento di un dipendente a causa dell’abuso della connessione ad internet realizzata mediante l’indebito utilizzo da parte di questo del computer aziendale, ritenendo per altro inapplicabile alla fattispecie in questione la disciplina prevista dall’art. 4 della Legge n. 300 del 1970 (lo “Statuto dei Lavoratori”).

IL FATTO:

Il caso portato all’attenzione della Suprema Corte aveva ad oggetto il licenziamento per giusta causa del dipendente di un’impresa assicurativa il quale si era reso colpevole di aver utilizzato il pc aziendale in dotazione per effettuare un’anomala serie di accessi ad internet tra i mesi di aprile e maggio 2013. Accertata tale condotta, la società aveva quindi provveduto al licenziamento del dipendente, il quale aveva proposto opposizione al licenziamento avanti al Tribunale di Bologna, che, in parziale accoglimento delle ragioni del lavoratore, aveva condannato la società al pagamento di un’indennità risarcitoria pari a venti mensilità.

Tale pronuncia era poi stata riformata in sede di appello dalla Corte territoriale, la quale, derubricata la fattispecie a licenziamento per giustificato motivo soggettivo, non solo aveva accertato la legittimità del licenziamento, condannando la società al pagamento della più contenuta indennità sostitutiva del preavviso, ma aveva anche dichiarato insussistente la violazione da parte della società della normativa in materia di riservatezza lamentata dal dipendente. Il lavoratore aveva quindi proposto ricorso per Cassazione avverso alla sentenza di secondo grado, affidato a ben nove motivi di impugnazione.

In primis, la Corte di Cassazione ha pienamente accolto la ricostruzione della Corte d’Appello di Bologna che fondava la legittimità del licenziamento sull’accertata contrarietà della condotta del dipendente «“alle elementari regole del vivere comune” e al contenuto precettivo tanto dell’art. 2104 c.c. come dell’art. 100 CCNL di settore», in ragione dell’utilizzo sistematico da parte di questo della dotazione aziendale per fini personali (47 connessioni nell’arco di due mesi, per un totale di 45 ore di connessione),

Ma la Cassazione è andata oltre, e – sempre nel confermare la sentenza di secondo grado – ha chiarito che i dettagli del traffico indicati dalla società nella lettera di contestazione “non costituiscono dati personali, non comportando alcuna indicazione di elementi riferibili alla persona dell’utente e di sue scelte o attitudini politiche, religiose, culturali, sessuali, rimanendo confinati in una sfera estrinseca e quantitativa che è di per sé sovrapponibile, senza alcuna capacità di individuazione, ad un numero indistinto di utenti della rete”: il datore di lavoro si era infatti limitato ad accertare data, ora, durata della connessione e volume del traffico, senza compiere alcun ulteriore approfondimento sui siti visitati dal dipendente o sulla tipologia di dati scaricati.

È infine opportuno segnalare come la Suprema Corte abbia colto l’occasione per confermare il proprio orientamento in materia di c.d. “controlli difensivi”, secondo il quale il divieto di controllo a distanza di cui all’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori potrà avere ad oggetto unicamente il corretto adempimento della prestazione lavorativa da parte del dipendente, mentre non trova applicazione con riferimento alle ipotesi di individuazione di comportamenti illeciti del dipendente idonei a ledere l’integrità del patrimonio aziendale e la sicurezza degli impianti.

La Cassazione ha dunque rigettato il ricorso dell’ex-dipendente, rilevando la sussistenza dei presupposti per il raddoppio del contributo unificato per processo inutile e costoso.

PERCHÉ È IMPORTANTE:

La pronuncia in esame è degna di considerazione in quanto offre vari spunti di riflessione in merito ad un ventaglio di tematiche di grande attualità connesse con la cessazione del rapporto di lavoro, dal rilievo ai fini del licenziamento dell’obbligo di diligenza di cui all’art. 2104 c.c., alla conferma di una maggiore libertà del datore di lavoro nel reprimere comportamenti illeciti del dipendente che possano danneggiare l’azienda, sempre nel rispetto del necessario contemperamento tra le esigenze di tutela del diritto alla dignità e libertà del lavoratore e del libero esercizio dell’attività imprenditoriale.

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