Con sentenza n. 8/2022 la Corte Costituzionale si è espressa sulla questione di legittimità costituzionale sollevata dal GUP presso il Tribunale di Catanzaro, in relazione al nuovo testo dell’art. 323 c.p., che sanziona il reato di abuso d’ufficio, come novellato dall’art. 23 del Decreto Legge n. 26/2020 recante “Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale”, convertito, con modificazioni, nella legge 11 settembre 2020, n. 120, per violazione, tra l’altro, dell’art. 77 Cost., dichiarando la questione non fondata. In particolare, la Consulta ha ritenuto pienamente legittimo il ricorso alla decretazione d’urgenza per la modifica in senso restrittivo del reato d’abuso d’ufficio, giustificata dall’esigenza di garantire efficienza all’azione amministrativa e il superamento della c.d. paura della firma legata alla percezione di un elevato rischio di sanzioni penali da parte di pubblici funzionari. Tale esigenza è stata, tra l’altro, acuita dalla pandemia Covid-19, e dalla conseguente oggettiva necessità di “sburocratizzare” molte attività.
IL FATTO:
Il GUP presso il Tribunale di Catanzaro, in data 6.11.2020, sollevava questione di legittimità costituzionale del novellato art. 323 c.p., reato di abuso d’ufficio così come modificato dall’art. 23 del Decreto legge n. 26/2020, in relazione, tra l’altro, all’art. 77 Cost.
Il Giudice dell’Udienza Preliminare, riteneva, nel caso oggetto del proprio giudizio, che, stando alla pregressa formulazione dell’art. 323 c.p., l’udienza si sarebbe dovuta concludere con l’emissione del decreto di rinvio a giudizio nei confronti degli imputati per il reato di abuso d’ufficio, mentre, le sopravvenute modifiche della norma incriminatrice operate con Decreto legge, avrebbero imposto l’emissione di sentenza di non luogo a procedere, in ragione della restrizione, nella nuova fattispecie, dell’ambito di penale rilevanza delle condotte tipiche.
Ciò in ragione del fatto che l’articolo 23 del Decreto legge n. 26/2020, ha riscritto la fattispecie incriminatrice dell’abuso d’ufficio in senso limitativo. Stando alla pregressa formulazione della norma, l’art. 323 c.p. puniva il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle proprie attività “in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti”, intenzionalmente procurava ingiusto vantaggio patrimoniale a sé o ad altri, o arrecava ad altri un danno ingiusto. Per effetto delle modifiche inserite mediante decretazione d’urgenza, la locuzione “in violazione di norme di legge o di regolamento” è stata sostituita da “in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”, così dando luogo a parziale abolitio criminis con riferimento alle condotte poste in essere in violazione di regolamento o di norme attributive di discrezionalità nell’azione amministrativa.
Ancora, il Giudice rimettente, oltre a contestare che tale abolitio criminis potesse essere attuata mediante lo strumento del Decreto legge, riteneva la novella estranea – per contenuto e finalità – al complessivo corpo normativo in cui era stata inserita, ovvero il Decreto legge n. 26/2020.
Ebbene, il Giudice delle Leggi ha, in primo luogo, fermamente escluso che la modifica di cui all’art. 323 c.p. sia estranea e disomogenea per materia e finalità al Decreto legge in cui è inserita, atteso che – come risulterebbe dal preambolo – il Decreto è intervenuto con un complesso di norme eterogenee per promuovere il generale obiettivo di favorire la ripresa economica del paese a seguito della paralisi delle attività produttive causato dalla prima fase della pandemia Covid-19. A tale scopo il provvedimento, ha chiarito la Consulta, è intervenuto anche sulla responsabilità degli amministratori pubblici. In particolare, restringere e chiarire la sfera applicativa dell’abuso d’ufficio, ha avuto come obiettivo quello di affrontare attraverso il diritto positivo la c.d. “paura della firma”. Tale fenomeno si sostanzia nella frequente astensione dei pubblici ufficiali dall’assunzione di decisioni necessarie al perseguimento del pubblico interesse o nel ricorso all’adozione di provvedimenti meno impegnativi per il timore di commettere reati.
Quanto alla contestazione del giudice a quo secondo cui rispetto all’art. 323 c.p. non fosse ravvisabile alcuna situazione di straordinarietà ed urgenza tale da giustificare la novella mediante Decreto legge, la Corte Costituzionale ha concluso che, per quanto l’esigenza di contrastare la paura della firma non nasca con la pandemia, ma si ricolleghi ad antecedenti orientamenti giurisprudenziali che hanno ampliato la sfera applicativa del reato di abuso d’ufficio fino a ricomprendervi le condotte in violazione dell’art. 97 Cost., l’esigenza di velocizzare la ripresa del paese ha decisamente impresso all’esigenza di contrastare il fenomeno della paura della firma connotati di straordinarietà ed urgenza.
PERCHÉ È IMORTANTE:
Con la pronuncia in commento la Corte Costituzionale ha salvato il nuovo testo dell’art. 323 c.p., introdotto – con il Decreto Legge n. 26/2020 – anche per contrastare il fenomeno della c.d. paura della firma e, di fatto intervenendo nel risalente dibattito in merito alla portata del principio di riserva di legge in materia penale, ha confermato che la decretazione d’urgenza può essere strumento idoneo all’inserimento o alla modifica di reati, qualora, naturalmente, siano presenti quei connotati di straordinarietà e di urgenza necessari.