L’Ordinanza del Commissario Straordinario n. 11 dello scorso 26 aprile 2020 stabilisce che le “mascherine chirurgiche” potranno essere commercializzate dal rivenditore finale al prezzo massimo di euro 0,50 ciascuna. Il provvedimento è finalizzato a rendere “equamente” accessibile un bene ritenuto utile a contenere l’emergenza epidemiologica di COVID-19. Tuttavia, il provvedimento pone criticità per la catena distributiva e può pregiudicare la validità di contratti in essere.
IL FATTO:
Il 31 gennaio 2020, il Governo italiano ha dichiarato lo stato di emergenza per sei mesi su tutto il territorio italiano in ragione dell’epidemia di COVID-19 (oggi pandemia come riconosciuto dal direttore generale dell’OMS in data 11 marzo 2020). Il DL 17 marzo 2020, n. 18 ha istituito il Commissario Straordinario con il compito di attuare le misure occorrenti per il contenimento e contrasto dell’emergenza epidemiologica. Ai sensi dell’art. 122 del citato decreto-legge, al Commissario Straordinario è stato attribuito il compito di attuare quanto ritenuto opportuno per acquisire e sostenere la produzione di ogni genere di bene strumentale utile a contenere e contrastare l’emergenza medesima, anche programmando e organizzando ogni attività connessa. Il 26 aprile 2020, il Commissario Straordinario ha disposto con Ordinanza n. 11/2020 che “il prezzo finale di vendita al consumo dei prodotti indicati nell’allegato 1, praticato dai rivenditori finali, non può essere superiore, per ciascuna unità, ad € 0,50, al netto dell’imposta sul valore aggiunto”. Tali prodotti sono le mascherine facciali (STANDARD UNI EN 14683) di tipo I, II e IIR, ovvero i dispositivi più semplicemente conosciuti al pubblico come “mascherine chirurgiche”. È opportuno chiarire che i relativi test di certificazione (secondo lo STANDARD UNI EN 14683) valutano l’efficacia filtrante della mascherina al momento dell’espirazione (respiro verso l’esterno) e non dell’ispirazione (respiro verso l’interno). Pertanto, tali dispositivi, se indossati, eviteranno di contagiare, poiché proteggono l’ambiente circostante (aria, superfici e oggetti in prossimità) da possibili contaminazioni dovute all’espirazione. I dispositivi FFP1, FFP2 e FFP3, invece, testati secondo la NORMATIVA EUROPEA EN 149:2001 certificano la protezione offerta dal dispositivo al momento dell’ispirazione e, quindi, la capacità di evitare, a chi li indossi, di inalare microbi e batteri. Tali ultimi dispositivi sono denominati anche “maschere di protezione”.
L’art. 1 dell’Ordinanza n. 11/2020, fissando il prezzo massimo di rivendita finale (quindi il prezzo di vendita al pubblico) riconosce implicitamente – ma nemmeno troppo – che tali presidi rappresentano, nella contingenza pandemica, “beni necessari” che devono essere forniti secondo criteri di universalità, continuità, qualità e accessibilità economica (cd. “affordability”). Al contempo, l’imposizione del “prezzo massimo finale” implica che la produzione e distribuzione del “bene necessario” debba avvenire “con metodo economico”, ma senza fini speculativi. La previsione di un “prezzo massimo” presuppone tuttavia la capacità dell’industria di efficientare l’intero ciclo produttivo (approvvigionamento di materie prime, lavorazione e fornitura, rivendita) perché tutti gli operatori coinvolti (nell’importazione, produzione e commercializzazione) possano conseguire un margine di remunerazione. In altre parole, l’attività di produzione di mascherine (riconoscendosi anche l’esenzione da IVA) sembra attualmente fatta ricadere entro la nozione di “servizio di interesse economico generale” (SIEG) di cui all’art. 106 TFUE, con tutte le conseguenze del caso, capofila la possibilità di legittimare forme di aiuto di Stato. Gli Stati membri dispongono infatti di un ampio margine di discrezionalità nel decidere se e in che modo finanziare i SIEG. Tuttavia, per evitare distorsioni della concorrenza, le compensazioni accordate per lo svolgimento della missione di servizio pubblico non devono generare sovra compensazioni e indebiti vantaggi competitivi. A ogni modo, si rinviene anche una visione evidentemente “autartica”, al momento confinata alle sole “mascherine chirurgiche”, ma che, tuttavia, nel contesto attuale ancora così fortemente condizionato dall’importazione di materiali dall’estero e dalla relativa competizione tra Stati gravati dalle medesime necessità di approvvigionamento, indurrà probabilmente molti operatori a rivolgere la commercializzazione altrove, rendendo inoltre più difficile la diffusione e l’utilizzo di tali pur semplici dispositivi di prevenzione. Al riguardo, è inoltre pacifico che prima del COVID-19 la produzione di tali dispositivi (che ha subito una quasi totale delocalizzazione) non fosse stata ritenuta essenziale e, molto probabilmente, l’essenzialità di tale funzione verrà meno a seguito del contenimento dell’epidemia, salvo ripensare le priorità nazionali anche nell’ambito dei prospettati nuovi obiettivi per rafforzare l’autonomia industriale dell’Europa in molti settori strategici (cfr. Comunicazione del 10 marzo 2020 della Commissione europea sulla nuova strategia industriale).
Al momento, dunque, parrebbe individuarsi una sorta di servizio di interesse economico generale dei produttori, seppur “a tempo determinato”, con conseguente configurabilità di nuove norme imperative da applicarsi alle operazioni commerciali di fornitura e rivendita, limitandosi il corrispettivo liberamente pattuibile. Il che, alimenta conseguenze di non poco conto sul piano strettamente civilistico. Ai sensi dell’art. 1322, co. 1, c.c. l’autonomia privata – leggasi in questo caso le clausole che disciplinano il prezzo di vendita delle mascherine nell’ambito dei contratti commerciali che si esauriscono nella sfera privata – può essere limitata solamente dalla legge, tenuto conto che le norme corporative altresì richiamate dall’articolo citato sono venute meno con R.D.L. 9 agosto 1943, n. 721 che ha disposto la “soppressione degli organi corporativi centrali, del Comitato interministeriale di coordinamento prezzi e del Comitato interministeriale per l’autarchia” (segnatamente, la soppressione dell’ordinamento corporativo fascista). Nel caso di specie, peraltro, poiché la norma limitativa si rinviene in un’ordinanza, si assiste a un intervento discrezionale, correttivo della domanda e dell’offerta di mercato, attuato con un provvedimento non avente rango legislativo, né adottato da parte di un’autorità terza indipendente all’uopo istituita e disciplinata, come normalmente avviene in mercati regolamentati (non dilungandoci sulla lunga querelle circa la natura e la legittimazione di tali autorità). In questo scenario e osservando i limiti posti alla contrattazione privata, riecheggia un certo “neo-corporativismo”, ossia riemergono norme di rango non legislativo atte a incidere direttamente nell’ambito della sfera dei diritti soggettivi dei privati e a contenimento dell’autonomia contrattuale (ovviamente il riferimento storico è alla disciplina corporativa nella materia economica, affidato a un complesso di organi statali non legislativi). Il che implica la necessità di prestare cautela circa l’analisi della legittimità di dette norme. Non certo per contestarne la meritoria valenza sociale, di “equità”, palesemente sottesa al provvedimento in commento, ma dubitandosi della misura del Commissario Straordinario in termini di (i) certezza del diritto; (ii) effetti in relazione alle operazioni commerciali di fornitura e somministrazione poste in essere nella catena distributiva; (iii) incidenza negativa sull’offerta laddove non sia possibile conseguire l’efficienza economica della distribuzione (e quindi una congrua remunerazione) e (iii) connesso contenzioso.
Limitando l’analisi agli effetti della norma inderogabile così introdotta con l’Ordinanza, si evidenzia che in un rapporto tra venditore e acquirente finale, la previsione di un prezzo maggiore a quello massimo stabilito dall’autorità configurerebbe un accordo illegale, per contrarietà a norma imperativa, con conseguente invalidità. Nel silenzio della norma (che si limita solo a fissare il prezzo massimo), non vi sarebbe altra soluzione rispetto alla nullità, peraltro insanabile (art. 1418, co. 1, c.c.). Si ritiene, tuttavia, che non possa ritenersi nullo l’intero contratto. Nel caso di violazione del prezzo massimo imposto, opererà infatti – anche in mancanza di espressa previsione normativa – il meccanismo di integrazione della volontà delle parti previsto dal combinato disposto degli articoli 1339 e 1419, co. 2, c.c.: la clausola del prezzo di vendita difforme, sarà automaticamente sostituita dal prezzo massimo di vendita. Ovviamente, trattandosi di prezzo massimo di vendita “al consumo”, il contratto in questione potrebbe essere stato concluso da qualsiasi soggetto-utilizzatore (un’azienda per i propri dipendenti o un consumatore presso una farmacia o altro punto vendita ad esempio). Ma che dire del caso di un rapporto di fornitura che contempli, ad esempio, un accordo per quantitativi minimi periodici, ad un prezzo superiore a quello massimo praticabile per la vendita al consumo? In siffatte ipotesi, l’acquirente (anche se non qualificabile come utilizzatore finale) potrebbe eccepire altresì la nullità ovvero agire per la risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta.
PERCHE’ È IMPORTANTE:
Il contenuto dell’ordinanza in commento risulta significativo in quanto introduce limitazioni all’autonomia contrattuale, anche se evidentemente di durata temporanea, con un calmieramento dei prezzi con ripercussioni sia sulla catena distributiva sia sulla stabilità dei contratti in corso.
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