Con la sentenza 51897 del 6 dicembre 2016, la Suprema Corte di Cassazione è intervenuta in materia di videosorveglianza nei luoghi di lavoro, soffermandosi sulla natura del reato previsto dall’art. 4 della Legge n. 300 del 1970 (lo “Statuto dei Lavoratori”) e cogliendo l’occasione per ribadire la continuità normativa con la fattispecie come originariamente disciplinata anche a seguito delle modifiche apportate alla norma dal D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 151, attuativo di una delle deleghe contenute nel c.d. Jobs Act.
IL FATTO:
Il caso è stato portato all’attenzione della Suprema Corte dalla legale rappresentante di una ditta avente in gestione un’unità produttiva di distribuzione carburante, la quale era stata condannata in primo grado dal Tribunale di Ferrara alla pena di 400 euro di ammenda per aver consentito, tollerato e, comunque, non impedito l’installazione di sei telecamere nel piazzale nelle vicinanze delle pompe di erogazione del carburante, le quali permettevano di controllare a distanza l’attività dell’addetta alle pompe mediante un monitor apposito, il tutto in assenza di accordo con le rappresentanze sindacali e in mancanza di un provvedimento della direzione territoriale del lavoro. La titolare aveva quindi proposto appello, convertito in ricorso per cassazione, avverso alla sentenza di condanna, sostenendo, tra i vari motivi di gravame, che, essendo emerso dall’istruttoria dibattimentale che l’impianto era stato installato allorché titolare dell’impianto era il fratello dell’imputata, il tribunale avrebbe dovuto assolvere quest’ultima in quanto estranea alla condotta contestata, configurando la fattispecie di cui all’art. 4 St. Lav. un reato istantaneo, la cui consumazione matura nel momento dell’installazione dell’impianto.
La Corte in primo luogo ripercorre l’evoluzione della norma sanzionatoria nel tempo, sottolineando come – nonostante le modifiche intervenute, in un primo momento con l’introduzione del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (il “Codice della privacy”), ed in seguito ad opera del D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 151 – debba ritenersi tutt’ora sussistente la continuità normativa con la norma nella sua formulazione originaria, restando fermo il principio «secondo il quale l’art. 4 Stat. Lav. […] fa parte di quella complessa normativa diretta a contenere in vario modo le manifestazioni del potere organizzativo e direttivo del datore di lavoro che, per le modalità di attuazione incidenti nella sfera della persona, si ritengono lesive della dignità e della riservatezza del lavoratore» sul presupposto che «la vigilanza sul lavoro, ancorché necessaria nell’organizzazione produttiva, vada mantenuta in una dimensione “umana”, e cioè non esasperata dall’uso di tecnologie che possono rendere la vigilanza stessa continua e anelastica, eliminando ogni zona di riservatezza e di autonomia nello svolgimento del lavoro». Secondo l’autorevole parere della Cassazione, dunque, la recente modifica normativa non è stata quindi latrice della dissoluzione del divieto generale di operare controlli a distanza sui lavoratori, che permane e risulta ancora applicabile, fatti salvi i casi espressamente stabiliti dalla normativa.
A valle di questa premessa, gli ermellini proseguono affermando che la tesi prospettata dalla ricorrente secondo la quale il reato di cui all’art. 4 St. Lav. andrebbe qualificato come reato istantaneo non merita accoglimento, costituendo l’installazione dell’impianto o la sua collocazione nel luogo di lavoro solo «uno tra i molteplici presupposti della condotta antigiuridica», essendo preferibile la riconduzione della fattispecie ad un’ipotesi di reato eventualmente abituale.
A nulla rileva dunque che non sia stata la ricorrente ad installare le telecamere, dal momento che questa ha utilizzato o tollerato la loro utilizzazione «fuori dai casi in cui, osservando la prescritta procedura, tali strumenti potevano essere consentiti». Per questo motivo la Cassazione rigetta il ricorso, condannando la ricorrente al pagamento delle spese processuali.
PERCHÉ È IMPORTANTE:
Con la sentenza in esame, la Corte di Cassazione, oltre a stabilire che la fattispecie di cui all’art. 4 St. Lav. costituisce un reato eventualmente abituale, con la conseguenza che «la rilevanza penale del fatto è data sia dalla commissione del singolo episodio e sia dalla reiterazione della condotta», riconosce in maniera esplicita la sussistenza all’interno dell’ordinamento, a prescindere dalle modifiche normative intervenute, di «un regime protezionistico diretto a salvaguardare la dignità e la riservatezza dei lavoratori, la cui tutela rimane primaria nell’assetto ordinamentale e costituzionale, seppur bilanciabile sotto il profilo degli interessi giuridicamente rilevanti con le esigenze produttive ed organizzative o della sicurezza sul lavoro», segnando un ulteriore progresso a favore della tutela dei lavoratori». Una simile affermazione acquista particolare rilevo se inserita nell’economia generale dell’ordinamento, manifestando, ancora una volta, il favor degli organi giudicanti nei confronti della tutela dei lavoratori.
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