Dimissioni e risoluzioni consensuali del rapporto di lavoro

Lawyer, notaryA seguito delle riforme introdotte con il c.d. “Jobs Act”, il 12 marzo 2016, è entrata in vigore la nuova disciplina sulle dimissioni volontarie e la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, che saranno effettuate in modalità esclusivamente telematica. Con il solito obiettivo di contrastare il fenomeno delle “dimissioni in bianco”, è stata tuttavia introdotta una procedura poco chiara ed assai complicata, che ha già indotto molti operatori a chiedere una “riforma della riforma“.

Molti, infatti, sono stati i problemi applicativi della nuova disciplina, tanto che il Consiglio nazionale dell’Ordine dei consulenti del lavoro, nei giorni scorsi, ha inviato una lettera al Ministro

del Lavoro per chiedere di riconsiderare la portata delle nuove norme sulle dimissioni on line, attenuandone gli effetti soprattutto in caso di abbandono del posto di lavoro da parte del lavoratore.

IL FATTO:

Dal 12 marzo scorso, dunque, le dimissioni e le risoluzioni consensuali sono valide e, quindi, idonee a interrompere il rapporto di lavoro, soltanto se poste in essere secondo la procedura di legge.

La predetta procedura non si applica:

  • alle dimissioni e risoluzioni consensuali delle lavoratrici madri e dei lavoratori padri di bambino fino ai tre anni di età (o tre anni dall’affido o dall’adozione), per i quali resta in vigore la procedura di convalida presso la Direzione territoriale del Lavoro;
  • alle dimissioni e risoluzioni consensuali dei rapporti di lavoro domestico;
  • alle dimissioni e risoluzioni consensuali avvenute in sede assistita.

Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali con la nota n. 1765 del 24 marzo 2016, ha comunicato, alle proprie Commissioni di certificazione presenti presso le Direzioni territoriali del lavoro, le modalità istitutive dello sportello dedicato ai lavoratori dipendenti che devono comunicare le proprie  dimissioni/risoluzioni consensuali del rapporto di lavoro con la procedura telematica, prevista dal 12 marzo 2016.

In particolare, il Ministero evidenzia che il soggetto chiamato ad assistere il lavoratore nel formalizzare le dimissioni o la risoluzione consensuale è la Commissione di certificazione non come organo ma come sede. In virtù di ciò, il direttore della Direzione territoriale del lavoro dovrà individuare proprio personale per attivare lo sportello dedicato.

Ricordiamo che le Commissioni di certificazione sono uno dei soggetti abilitati dalla normativa (articolo 26, decreto legislativo n. 151/2015) insieme ai patronati, ai sindacati ed agli enti bilaterali. L’assistenza di un soggetto abilitato potrà essere richiesta sull’intero territorio nazionale, indipendentemente dalla propria residenza o sede lavorativa.

Qui di seguito la complicata procedura operativa.

Il lavoratore dimissionario attraverso il sistema informatico SMV, richiede il codice PIN INPS; con tale PIN, crea un’utenza per accedere al portale ClicLavoro del Ministero; l’Inps invia successivamente, a casa del lavoratore, con posta ordinaria, un codice identificativo personale; ricevuto tale codice, il lavoratore torna sul sito Cliclavoro per completare il format.

In alternativa, il lavoratore può avvalersi di un soggetto accreditato (sindacato, patronato, ente bilaterale, commissione di certificazione). In tal caso, non è necessario chiedere il PIN all’INPS e accreditarsi su ClicLavoro, all’identificazione procede il soggetto abilitato.

In entrambi i casi – registrazione diretta o tramite soggetto accreditato – la procedura si conclude con l’invio delle dimissioni, oppure della comunicazione relativa alla risoluzione consensuale del rapporto, sia all’indirizzo PEC del datore, che a quello della Direzione territoriale del Lavoro.

Complicazioni operative:

Alla luce della nuova disciplina, dunque, dal 12 marzo scorso, il lavoratore dimissionario deve consegnare al datore di lavoro la propria lettera di dimissioni e, contestualmente, avviare la procedura telematica suindicata e ricevere dall’INPS (si spera con tempestività) il Pin necessario per scaricare il modulo da inviare sia all’indirizzo PEC del datore, che a quello della Direzione territoriale del Lavoro. Nel modulo, il lavoratore deve anche indicare la data di decorrenza delle dimissioni. A questo punto, però si pone il problema di quale data indicare, se quella di presentazione delle dimissioni o oppure quella del giorno di compilazione del modulo.

Poiché la legge considera inefficace qualsiasi comunicazione diversa da quella telematica, il preavviso di dimissioni dovrebbe decorrere dal giorno della compilazione del modulo telematico; ne consegue, quindi, che il lavoratore dovrebbe indicare, come data, il giorno di compilazione del modulo. Tutto ciò ha delle inevitabili conseguenze:

  • di fatto, il preavviso a carico del lavoratore si allunga, decorrendo da data successiva alla presentazione delle dimissioni;
  • se il lavoratore non può garantire al datore di lavoro tutto il preavviso così “allungato”, resta a suo carico l’indennità sostitutiva del preavviso.

Detta tempistica può essere ulteriormente allungata, ove il lavoratore non ritiri tempestivamente la busta inviata dall’INPS con il codice identificativo personale.

Può altresì avvenire che il lavoratore consegni al datore la lettera di dimissioni, ma non attivi la procedura telematica e non si presenti più a lavoro.

Questo è il caso che il Consiglio nazionale dell’Ordine dei consulenti del lavoro ha sottoposto Ministro del Lavoro. La riforma non prevede azioni specifiche per chi abbandona il posto di lavoro senza formalizzare le dimissioni. Peraltro – si legge nella lettera al Ministro – trattasi di un fenomeno molto ricorrente soprattutto in alcuni settori e stimato in circa 70.000 casi l’anno.

In questi casi, l’unica possibilità per il datore di lavoro sembra essere quella di provvedere disciplinarmente nei confronti del lavoratore e, quindi, attendere che l’assenza ingiustificata si prolunghi di un numero di giorni sufficiente a giustificare il licenziamento; avviare il procedimento disciplinare e, da ultimo, intimare il licenziamento per giusta causa. Tale scelta, come segnala anche il Consiglio nazionale dell’Ordine dei consulenti del lavoro, sarà economicamente sensibile: il ticket licenziamento (per anzianità fino a 3 anni) può arrivare fino a 1.500 euro circa.

Peraltro, osserva ancora il Consiglio nazionale dell’Ordine dei consulenti del lavoro, trasformare una dimissione di fatto in un licenziamento porta con sé ulteriori effetti quali, quello paradossale di riconoscere l’indennità di disoccupazione (Naspi) a chi ha abbandonato il posto di lavoro, esponendo inoltre l’azienda al rischio che il licenziamento sia impugnato, con tutti i conseguenti rischi.

Il lavoratore può revocare le dimissioni entro 7 giorni (che decorrono dal completamento della procedura on line). Per tutto tale periodo, allora, il datore di lavoro non può adottare alcun provvedimento di carattere organizzativo: ad esempio non potrà sostituire il dimissionario; se modifica i turni oppure l’organizzazione del lavoro, deve essere poi pronto a rivedere detta riorganizzazione. Peraltro, a ben vedere non si tratta di gestire un periodo limitato di soli 7 giorni, dal momento che bisogna considerare la possibile dilatazione dei tempi, in conseguenza di ritardi nell’espletamento della procedura.

E’ evidente, quindi, la disfunzione di questa complessa procedura: ed infatti, se per ragioni produttive e organizzative, il datore di lavoro assume un altro dipendente per coprire la posizione lasciata “scoperta” dal dimissionario, nel momento in cui costui ci ripensa (e potrebbero intercorrere anche 10/15 giorni secondo la procedura), il datore di lavoro avrà il problema serio di dover gestire un esubero di personale e, quindi, un licenziamento (naturalmente, dell’ultimo arrivato).

Oltre agli evidenti problemi applicativi, non mancano nemmeno dubbi interpretativi sulla riforma stessa.

  1. La procedura si applica a tutti i dipendenti del settore privato con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato (con le eccezioni di cui sopra) ma potrebbe ritenersi applicabile anche in caso di cessazione anticipata (per risoluzione consensuale o dimissioni) di un contratto a termine. Ciò premesso, la legge nulla dice su una serie di fattispecie particolari quali, ad esempio: le dimissioni per giusta causa, la risoluzione del rapporto in costanza di periodo di prova, la risoluzione del rapporto dei lavoratori assunti con contratto di apprendistato nel corso del periodo formativo, la risoluzione del rapporto dei lavoratori che si dimettono in conseguenza del raggiungimento dei limiti di età per il pensionamento. Nel silenzio della legge, la nuova procedura dovrebbe ritenersi applicabile a tutti i casi di cui sopra.
  2. Entro 5 giorni dalla cessazione (per qualsiasi causa) del rapporto, il datore di lavoro deve inviare una comunicazione in via telematica al centro per l’Impiego. L’inottemperanza a tale obbligo prevede una sanzione compresa tra 100 e 500 euro. La riforma nulla dice in proposito e, quindi, non è chiaro se i 5 giorni decorrano, dall’esito dalla procedura on line, dal ricevimento (da parte del datore) del modulo che contiene le dimissioni (o la risoluzione consensuale), o dal termine del periodo di 7 giorni, durante i quali il lavoratore può cambiare idea oppure dalla effettiva cessazione del rapporto (in caso di dimissioni, allo spirare del preavviso).
  3. La legge non disciplina gli effetti della revoca delle dimissioni con riguardo agli aspetti retributivi. Può ragionevolmente ritenersi che, in assenza di prestazione, non vi sia diritto (per tale periodo) alla retribuzione.

Viste le complicazioni operative ed interpretative che nella pratica si stanno riscontrando e che si riscontreranno, essendo le ipotesi e fattispecie assai variegate, si auspica un intervento chiarificatore del Ministero, ma soprattutto del Legislatore.

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