Diritto all’oblio: nuova pronuncia giurisprudenziale

privacy-2Con la sentenza 10374 del 28.09.2016 il Tribunale di Milano prosegue in quello che ha oramai assunto le sembianze di un vero e proprio contrasto di orientamenti tra il Garante per la protezione dei dati personali e la giurisprudenza di merito circa il bilanciamento tra diritto all’informazione e diritto all’oblio.

IL FATTO:

La vicenda ha avuto origine dalla richiesta effettuata al Garante della privacy da una docente di economia, componente dell’Autorità per l’Energia Elettrica ed il Gas, vice presidente della MEDREG (Mediterranean Energy Regulators) e componente del CEER (Council of European Energy Regulators), diretta ad ottenere da Google la deindicizzazione di un articolo, dal contenuto asseritamente diffamatorio, pubblicato su un noto quotidiano nazionale nel 2010, poi rimosso a seguito di un accordo transattivo tra la docente, il giornalista ed il direttore responsabile, salvo poi essere pubblicato due anni più tardi su un web blog.

Il Garante per la privacy, con Provvedimento n. 156 del 31 marzo 2016, aveva rigettato il ricorso della docente, ritenendolo infondato, «non ritenendosi sussistenti i presupposti indicati nella sentenza della Corte di Giustizia Europea del 13 maggio 2014 (c.d. Google Spain, n.d.r.), nonché nelle “Linee Guida” di attuazione della stessa».

La ricorrente impugnava dunque il provvedimento sopra citato avanti al Tribunale di Milano, richiedendone l’annullamento con conseguente condanna del gigante di Mountain View a provvedere alla deindicizzazione dell’URL oggetto della controversia rispetto alla ricerca con le chiavi recanti il nome dell’interessata.

Al termine di un percorso argomentativo fondato proprio su quella sentenza della CGUE che il Garante per la privacy aveva posto a base della sua decisione di rigetto, tenuti in considerazione il tempo trascorso dalla pubblicazione ed il contenuto dell’articolo, il Tribunale ha riconosciuto come i dati personali relativi alla docente «pur astrattamente ancora attuali – in ragione del ruolo ricoperto dalla ricorrente nell’AEEG – non siano aggiornati e pertinenti e non rivestano alcun carattere di “pubblico interesse”», con la conseguenza che nel caso di specie a prevalere non può che essere il diritto della ricorrente a non restare legata ad un’immagine incapace di rappresentarla correttamente.

Meritano menzione anche alcune considerazioni preliminari svolte dall’organo giudicante, ed in particolare:

– in materia di legittimazione passiva, il giudice ha riconosciuto, per la prima volta in Italia, la possibilità di qualificare Google Italy S.r.l. “quale rappresentante in Italia di Google Inc., ai sensi e per gli effetti dell’art. 5” del D.lgs. 196/2003 (Codice della privacy);

– con riferimento alla delimitazione dell’oggetto della causa, questo è stato individuato nella “tutela del diritto all’identità personale” della ricorrente, rigettando la ricostruzione presentata da Google, secondo la quale il petitum si sarebbe dovuto identificare nella tutela del diritto all’onore e alla reputazione.

Il giudice milanese ha infine colto l’occasione per rimarcare la differenza tra cancellazione e deindicizzazione del contenuto lesivo, precisando che “con la deindicizzazione, il dato personale non viene rimosso dall’insieme dei dati memorizzati nel web, ma soltanto sottratto ad una modalità di reperimento semplice ed istantanea”.

PERCHÉ È IMPORTANTE:

La decisione è rilevante non solo poiché rappresenta una ragionata applicazione dei principi stabiliti dalla sentenza Google Spain e dalle successive Linee guida in materia di diritto all’oblio emanate dal Gruppo dei Garanti Europei nel novembre del 2014, ma anche perché propone una nuova lettura del diritto fatto valere dalla ricorrente, il quale non sarebbe riconducibile a quell’autonomo diritto della personalità conosciuto come diritto all’oblio, bensì costituirebbe «un aspetto del diritto all’identità personale, segnatamente il diritto alla dis-associazione del proprio nome da un dato risultato di ricerca».

Il Tribunale di Milano ritiene infatti che «il c.d. ridimensionamento della propria visibilità telematica» rappresenti «un aspetto “funzionale” del diritto all’identità personale, diverso dal diritto ad essere dimenticato, che coinvolge e richiede una valutazione di contrapposti interessi: quello dell’individuo a non essere (più) trovato on line» da un lato, ed il diritto di iniziativa economica posto in capo al motore di ricerca, affiancato dal diritto alla libertà di informazione ed il diritto alla libertà di espressione, dall’altro.

E proprio ai fini di tale valutazione «la protezione dei diritti inviolabili della persona costituisce il principale criterio che deve orientare l’interprete nell’esegesi del sistema normativo, e nel bilanciamento tra diritti fondamentali, per assicurare il rispetto della dignità della persona umana. Tale impostazione si rivela l’unica compatibile con il principio personalistico che anima la nostra Costituzione, la quale vede nella persona umana un valore etico in sé e vieta ogni strumentalizzazione della medesima per alcun altro fine eteronomo ed assorbente».

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